L’amore al Bar
Giusy Puglisi
(“Extended book del romanzo “Chiunque” – Morellini Editore”)
Le avevo guardate dal tavolo di fronte, conversavano e sorridevano davanti ad una tazza di caffè. Una bionda, riccia, sorseggiava il caffè lentamente per allungare la conversazione. L’altra lasciava sul piattino, immobile, quello che doveva essere la ragione dell’incontro.
«Prendiamoci un caffè», avevano detto prima di entrare ma l’intenzione andava oltre ed il calore si dissolveva dentro un filo di fumo. Nella tazzina, mischiavano chiacchiere e risate, racconti d’ogni tipo, parlando di fidanzati disattenti, matrimoni sperati.
Chi fossero, cosa le avesse messe di fronte, potevo solo immaginarlo aggiungendo dettagli, sforzando di ascoltare le frasi che raggiungevano le mie orecchie. Costruivo nella mente cercando compagnia, mettendo sedute al mio tavolo chi nemmeno conoscevo. Lo facevo continuamente. Il Bar era il mio luogo d’incontri, terra dove smettevo d’essere isola. Andavo tutte le mattine, cercando calore nella ressa davanti al bancone, stringendomi tra le braccia intente a mescolare. Attaccavo sguardi addosso ad ogni signora, le bevevo iniziando dal basso, dai piedi per poi risalire fino all’ultimo capello, svuotandole dei vestiti, avventurandomi in ogni piega del corpo. Gustavo tutto il sesso che riempiva le cosce, il seno, le caviglie sottili. Cercavo gli sguardi, l’emozione di cadere dentro l’anima dagli occhi, lasciando alle attese il compito di gonfiare il desiderio. A volte mi incastravo dentro una gonna, poi scappavo veloce, restavo un calzino spaiato in mezzo a gente che sta insieme.
Delle due donne di fronte preferivo la bionda, mi scaldavo a distanza, con il calore che emanava il suo corpo. Guardavo sotto il loro tavolo aspettando che sentisse il bisogno di accavallare le gambe, provando ad aprire uno spiraglio in mezzo alle cosce, con il desiderio e la volontà del pensiero. Immaginavo sarebbe successo e paziente aspettavo, sorseggiando il caffè. Le gambe si stringevano attorno ad un sottile strato di calze nere, un abito corto leggero, pronto a volare al primo alito di vento, chiudeva il sipario.. Il fatto che l’eleganza non fosse tra le sue virtù, le permetteva di concedersi una scollatura vistosa, che pressava abbondantemente sull’urgenza pulsante nei miei pantaloni.
Seduto alla cassa, da sopra la sua pedana anche Carmelo guardava e canticchiava, tutti ammiccavano sorridendo. Fissava me e le signore, poi di nuovo me e le signore. Indicava con gli occhi, per segnare il raggio di azione del mio interesse. I capelli lunghi, spalmati di gel, tirati indietro lasciavano aperta la fronte spaziosa e le rughe, che muoveva in alto e in basso, per continuare a dirmi in tutti i possibili modi, i suoi pensieri. Lo faceva sempre, era un rito, ruotava la mano e tutto l’avambraccio, dava fiato al solito monosillabo «Me» allungandolo all’infinito e aggiungeva: «Oggi ti mangi un bel cornettino».
Vedevo i soliti da dietro, appoggiati al bancone alzare le spalle, ridere. Avrei volentieri riso con loro ma troppo in vista, alzavo le labbra, smorfiavo appena un sorriso. Quello era il momento in cui godevo più di qualsiasi veloce scopata. Era l’intesa perfetta fatta di mezze parole, gesti e canzoni. Dentro il Bar potevo conoscere i pensieri dei miei colleghi clienti, senza bisogno di guardarli negli occhi. Era amore il nostro, romanzo rosa fatto di abbracci al novantesimo minuto, dell’ultima sigaretta offerta senza pensarci, del cenno con la mano che facevo entrando senza bisogno di dire “Fammi un caffè”. Fuori dalla porta a vetrata, lontano dal calore di quelle mura, c’era solo incomprensione, mogli parlanti o la fatica di andare a lavoro.
Carmelo, proprietario e padrone, affondato da strati di grasso nel profondo trono della cassa, dirigeva l’orchestra senza muoversi. La sedia rivestita di blu, soccombeva esausta dinnanzi al dovere della gommapiuma di attutire l’impatto del peso. Schiacciata, restava la forma, sindone impressa a futura memoria. Con un dito indicava i suoi desideri ai ragazzi al bancone, che nutrivano il suo appetito di cornetti e sfogliatine. Arrivava il piattino, un tovagliolo e il contenuto, si trasformava in vuoto nel tempo massimo di girata di spalle del banconista che restava serio, assolutamente impassibile. Non rischiava, il lavoro è lavoro.
I ragazzi avevano cinquant’anni, sessantuno e Nino che arrotondava la pensione con le mance e lo stipendio, pagato davanti alla cassa e piegato in due dentro la tasca dei suoi pantaloni. Aveva le mani veloci, i piedi mai stanchi di stare in piedi e di girare continuamente sulla pedana. Non era il bisogno a spingerlo al lavoro, dopo la sperata pensione, ma l’esigenza di dover dare ad ogni giorno la medaglia della fatica. I figli erano cresciuti senza di lui, che a Natale celebrava la festa dell’incasso in nero per il servizio che nessuno accettava di fare. La domenica, a volte, venivano a trovarlo al Bar, accennavano un saluto. Nino continuava a girare carta e filo attorno ai pasticcini, dimostrando l’insostituibile maestria delle sue mani esperte. Mostrava ai nipoti tenuti in braccio, l’arte del saper fare bene e veloce.
Lo conoscevo da sempre, da quando piccolo, avevo lasciato l’impronta del piede sopra il bianco della parete. Portato per mano, avevo aspettato che mio padre finisse tutti i discorsi adulti masticati dalla sua bocca.
«Papà, andiamo?»
«Un attimo»
Era bastato uno sguardo, non aveva avuto bisogno di altre parole per convincermi a stare zitto. Ricordavo il dolore della forma rossa delle cinque dita sulla guancia, combacianti perfettamente con la sua mano, impresse per chiarire definitivamente il fatto che dovevo stare in silenzio, sempre. Con gli occhi, aveva fatto aderire il mio corpo al muro. Andare via senza schiaffi era il mio obiettivo e per riposare la noia, poggiai il piede sulla parete, ancora oggi annerita dal numero trentaquattro delle mie scarpe.
«Avanti, vieni qua, ti do l’acqua con lo zucchero», la voce arrivava da dietro il bancone.
«Quanti anni hai? Lo sai che ho un figlio come te?»
Lo guardai con il bicchiere in verticale sopra la bocca, spinto in alto per fare cadere i granelli rimasti appiccicati sul bordo.
«Dieci»
«Visto, te l’avevo detto, sei uguale a mio figlio»
Tra tutti i ricordi, questo è uno prezioso, il momento in cui sono diventato parte dell’insieme imperfetto del “Bar Chantal”.
Quel giorno mi chiese dei compiti e della scuola, del calcio e se fossi fidanzato. Il perché del suo interesse l’ho compreso con il tempo, osservando come cercava in tutti i bambini i pezzi più piccoli della famiglia. Sentiva il peso delle sue assenze, lo rimuoveva dando attenzione a chiunque potesse essergli figlio. Io incarnavo il bambino perfetto da accudire per chiudere la bocca alla coscienza.
Crescendo smise di vedermi gradatamente, forse perché nella mente di ogni padre, i figli restano piccoli, sempre. Adolescente non servivo più, diventavo un cliente qualunque.
Nino non cercava niente in mezzo alla scollatura, l’interesse verso i clienti si esauriva appena dopo averli serviti. Aveva tolto le due tazzine vuote e senza guardarle, era tornato indietro con il vassoio pieno di tovaglioli e tazze. Io invece, convito di poter trovare qualcosa in mezzo a quella carne abbondante, continuavo a fissare con perseveranza.
A distanza di tempo, con il saggio senno di poi, avrei dovuto alzarmi prima.
L’accendino, maledettissimo, le cadde per terra. Mi precipitai per raccoglierlo, era proprio accanto ai suoi piedi, sotto il tavolo che da un’ora guardavo con attenzione. Inginocchiato, alzai lentamente lo sguardo, con calma, spalmandolo sopra il suo corpo. Non disse grazie, le si erano incollate le labbra. In un attimo il centro del suo interesse ero diventato io, non più l’amica di fronte. Confusa, non rideva, aveva smesso di parlare ad alta voce, abbassava lo sguardo e poi cercava il mio, generosamente offerto senza imbarazzo. Quello era per me pane quotidiano, cibo dell’anima che rinvigoriva con ogni conquista. Come un gallo alzavo la cresta, gonfiavo il petto e sorridevo.
Il tempo tiranno spinse l’amica a salutarla, lei restava ed io con un balzo veloce occupai la sedia vuota. In silenzio fissavo i suoi occhi confusi. Siamo stati zitti e fermi, l’uno di fronte all’altro, statue di sale. Ho detto io per primo, una qualunque insulsa cosa che potesse rompere il ghiaccio.
«Quindi dove eravamo rimasti?»
Rossa in volto, tesa ma pronta ad arrendersi aveva esitato prima di aprire la bocca.
«Anna, mi chiamo Anna»
Le labbra rosse e carnose, pronunciavano quel nome distendendosi tutte e come un sogno immaginavo la parte del corpo con cui godevo di più, in mezzo a quella caverna, avvolta.
«Piacere, Lorenzo»
Non era vero, il mio vero nome era quello che mio padre aveva copiato al nonno Gaetano. Io, per onorarne la memoria ripetevo le gesta memorabili. Lui, sposato, doveva agire di nascosto, senza fare troppo rumore. Era un equilibrio precario, difficile da mantenere e mia nonna un giorno l’aveva trovato a casa della vicina, seguendo le voci che sussurravano e camminavano dentro le orecchie di mezzo quartiere, che lo vedevano ogni giorno sbagliare la porta d’ingresso. Zitta era tornata a casa muta e muta era stata per mesi. Non l’aveva lasciato, ma solo mostrato l’offesa. Rassegnata e cornuta, mia nonna, chiuse gli occhi e smise di ascoltare chi voleva raccontarle per il suo bene.
L’errore suo non l’avevo fatto, ero riuscito a scansare il matrimonio.
«Un altro caffè?»
Aveva abbassato la testa e quel sì silenzioso, annuiva con imbarazzo a ben altro. A quel punto dovevo puntare in alto, al piano di sopra, per farle capire che quello che desideravano entrambi era ad un passo, raggiungibile entrando nel portone accanto al Bar, salendo le scale fino ad arrivare al letto lasciato disfatto come ogni mattina.
«Casa mia è proprio qui sopra, lì possiamo parlare tranquilli» e con il dito indicai il soffitto. Un sorriso le bastò per dire il suo sì.
Le poche scale che portavano al piano di sopra, diventarono ostacolo infinito. Ad ogni passo un bacio rallentava la corsa, in mezzo ad un incauto romanticismo, annaspavo. Il perché ho lasciato spazio a così tanti preliminari, lo chiedo ancora a me stesso. Forse troppi caffè avevano alzato l’asticella delle emozioni, fatto battere il cuore impropriamente.
Fu calore sopra la pelle, carezze che non pensavo di avere, trovarono la sua schiena e l’amore ci sorprese distesi l’uno su l’altro. L’apice della passione, impaziente, arrivò veloce, come sempre. Rimasi a letto di fronte a fissare i suoi occhi verdi, sfiorando con un dito i tratti del viso. Era bella, da vicino lo era ancora di più. Con la testa appoggiata sul cuscino, riempiva di ricci il vuoto che mi lasciavo accanto.
Gustavo le insolite tenerezze, sapendo che a breve tutto sarebbe finito, concedendo alla mia solitudine la libertà di amare una sconosciuta. Nudi e soli, zitti spaziavamo in un mondo chiuso e completo. Portarla in cucina, fu il gesto più eclatante che le stavo aprendo il cuore, che potevamo mangiare insieme.
Un piatto di spaghetti era l’unica cosa che sapevo fare e per la prima volta, seduto a tavola, in mutande, versai il vino rimasto da giorni dentro il frigo, nel bicchiere di una signora.
“Se qualcosa è perfetto meglio non ricordarlo, lasciare in bocca soltanto il sapore, smettendo di sperare possa ritornare”.
Era una frase geniale, l’usavo per liquidare le ospiti più invadenti. Commosse e stordite, andavano via chiudendo la porta, per non rovinare tutto. Quella volta pronunciai per abitudine il mio solito discorso, arreso all’infame destino di voler essere coerente, partito di opposizione ad ogni relazione che andasse oltre la misura delle ore. Davanti alla porta d’ingresso, chiusa dietro di lei, abbassai lo sguardo per terra, come un cane in autostrada. Da solo nella stanza da letto avevo cercato i pantaloni, coperto il freddo del cuore con il maglione rimasto tra le lenzuola.
Il permesso d’uscire dalla mia vita glielo avevo dato io, accompagnandola davanti alla porta, spingendola fuori per non cambiare nulla dell’immagine che mi attaccavo addosso. L’avevo fatto perché scricchiolavo di dubbi, terrorizzato dalla paura di non trovare più me stesso. Stavolta poteva essere diverso, il perché non lo capivo. Forse era stato il profumo della sua pelle a raccontarmi che combaciavamo, come pezzi di un anello spezzato. Non avevamo avuto il bisogno di scambiarci molte parole, parlavano zitti i nostri corpi. Forse per questo l’inconscio mi inquietava con presagi di intesa perfetta. Un solo passo falso e sarei finito con un giro di pancia attorno alla vita, una compagna accanto. Cauto, avevo dato retta al mio istinto conservatore, ma dentro era rimasto qualcosa che mi rendeva nervoso, un desiderio pruriginoso, pidocchio da grattare per toglierlo dalla testa.
L’indomani mattina, riscaldavo la stessa solita sedia, il mio posto fisso al “Bar Chantal”. Entrando avevo visto i commenti, pronti in partenza dalle bocche dei soliti, bloccarsi di fronte al mio sguardo. Impietriti, mi salutarono con un cenno di mano per poi parlare con confidenza l’uno vicino all’orecchio dell’altro. L’irritazione approfittava di ogni smorfia del viso per rendere esposta l’insofferenza. Scostavo in silenzio. Per pietà arrivò un caffè a consolare la bocca vuota. Avevo provato con il fuoco la scelta di voler essere uno ed uno soltanto, non due, non coppia, e mi ero bruciato.
Il tempo cura le ferite, quello solo sapevo e per quello ho aspettato tra una chiacchiera e l’altra, scomparissero i suoi occhi dalla memoria, stringendomi stretto in mezzo agli amici, tra un macchiato ed un espresso.
L’amore aveva vinto la sua partita, facendo entrare in porta un mio autogol, con cattiveria aveva infierito con i suoi baci sopra la bocca. Ora dovevo salvarmi spostando i piedi dal precipizio, recuperare terreno, la leggerezza di voler vivere senza le camicie stirate e l’odore dei suoi capelli sul cuscino.
Oggi, a distanza di tempo continuo a lottare accudendo i miei desideri con cautela, di passaggio in camera da letto. Per mostrare affetti e sentimenti aspetto il derby e abbraccio Nino dopo ogni gol, stretto stretto come fosse mio padre. Rigido come un bastone mi lascia fare, gli faccio cadere i bicchieri dentro il vassoio. Lui guarda i tovaglioli in mezzo all’acqua e lo sento agitato, sottovoce, dire che sono un bambino.
«Mai! Non cresce mai questo»
«Nino, l’acqua con lo zucchero, me la prepari?»
Ricorda, sorride e mi porta un caffè.
Carmelo continua dall’alto a dirigere il traffico dei miei interessi, averte per primo la presenza di donne troppo invadenti e mi dissuade scuotendo la testa, abbassando le sopracciglia. Mi protegge dai rischi, è la mia assicurazione contro gli eventi avversi d’amore.
La famiglia che mi sono inventato, collabora tutta alla mia salvezza. Apre le saracinesche ogni giorno alle sei in punto, odora di buono, cornetti e caffè, riscalda di vapore gli animi ed il cappuccino. La bontà è il suo forte, la domenica straripa dai cannoli, gonfia di panna tutti i bignè.
“Bar Chantal” così dice l’insegna con le lettere piegate a destra, eleganti, io dico che è casa perché mi accoglie a braccia aperte come una madre davanti alla porta d’ingresso. Nessuno là dentro, aspetta che io diventi migliore per volermi bene, basta pagare il conto e non chiedere lo scontrino.