Giuseppe Lombardo è un musicista catanese nato nel ’71. Quando ancora non si faceva chiamare LOmB è stato uno di quei talentuosi musicisti che hanno contribuito attivamente a rendere vivo ed entusiasmante lo scenario indie catanese degli anni ’90. Appartengono a quel periodo le sue esperienze con i GothicAngels, i Nerve’sKorut, i Plank (traghettando nel nuovo millennio coi Baffos) e le collaborazioni con artisti locali e internazionali come Tony Carbone (Denovo), Agostino Tilotta (Uzeda), Don Zientara (Fugazi) e Cesare Basile.
Accanto alle prolifiche attività creative in studio, ha maturato un curriculum live di tutto rispetto, pregiandosi di “fare da spalla” a gruppi blasonati come i Sonic Youth, Wire, Old Time Relijun, Melt Banana e Bugo, solo per citare i più titolati. Dopo l’esperienza coi Baffos ha proseguito con gliUte Puta, formazione punk che vede il suo punto di maggior rilievo nel concerto in compagnia dei No Means NO. L’ultimo progetto di gruppo lo realizzacon gli Zuma econ essi incidenel 2013 un LP da titolo “Lessis more”.
Oggi Giuseppe “LOmB” ritorna sulle scene da solista, proponendo un interessantissimo lavoro dal titolo Cuts (Cazz). Nell’album le sfaccettature di un rinnovatoestro artistico emergono, facendoci apprezzare inedite modalità d’espressione. Il sound arriva diretto e immediato;Giuseppe mescola con arte la frugalitàdalle sonorità folk della chitarra acustica, all’impatto elettrico dal gusto noise e punk degli esordi, non disdegnando l’elettronica negli arrangiamenti.
Ci incontriamo nella nostra città, Catania, e chiacchierando come ai vecchi tempi, perdiamo (senza pentircene) la cognizione del tempo:
1) Ciao Giuseppe, innanzi tutto congratulazioni per Cuts l’ho ascoltato dall’inizio alla fine più volte ed è davvero un’opera molto particolare! Voglio chiederti subito come è nato il progetto, da quanto tempo ci lavori e con chi hai collaborato per realizzarlo.
Grazie infinite Davide.
Questo disco, come moltissimi fra i dischi fra i miei preferiti, è un disco che parla di delusioni legate al mondo degli affetti, in particolare di quelle sensazioni che riconosci piccole e banali una volta che le hai smaltite ma che sono così intense e dolorose mentre le attraversi che fai fatica a concentrarti sulle tue normali attività quotidiane. Sensazioni che non puoi condividere più di tanto con chi ti circonda senza correre il rischio di farti odiare.
Non so sia è per tutti così, nel mio caso lo è certamente, l’interruzione imposta di una relazione ti lascia con un fiume in piena di parole che vorresti esprimere per cercare di recuperarla, parole e pensieri che ti possiedono e da cui non sei in grado di liberarti, una valanga che ti investe dentro che ha un senso solo per te che la vivi. Nei confronti di tutto il mondo che ti circonda la cosa più utile da esprimere è invece il silenzio, un modo saggio per non risultare patetico agli occhi degli altri e anche ai tuoi una volta che la tempesta è passata.
Quando mi trovo in questo stato emotivo le canzoni mi vengono in qualche modo offerte. Non sono io che compongo, è qualcosa di più alto e potente che si serve di me per dargli forma e per offrirle prima a me e poi a chi le ascolta. Si tratta del mio piccolo e personale big bang!
Insomma, per chiudere il discorso, passata questa fase in cui sono stato praticamente posseduto, mi sono ritrovato con questa mangiata di canzoni che ho custodito gelosamente. Le ho registrate con i miei mezzi domestici, sistemate, e arrangiate per conservarle dentro al cassetto del comodino e suonarle ogni tanto più per me stesso che non per altri.
Poi è successo che ho ospitato per qualche giorno un mio amico (faccio il nome perché lui è stato un promotore della musica alternativa Catania — Carmelo Milea) che, dopo aver sentito i brani suonati nel mio soggiorno con chitarra e voce, ha organizzato un mio concerto senza che ne sapessi nulla, mettendomi davanti alla data quando l’aveva già confermata. Questo evento ha cambiato il corso della mia vita da musicista.
Sono stato costretto in quell’occasione a scegliere un nome, non mi andava di usare il mio nome di battesimo avendo scelto di cantare in inglese non mi suonava bene un nome italiano e comune come “Giuseppe” per propormi al pubblico, allo stesso tempo non mi è sembrato il caso di fare il “John Smith di Catania”, così Lomb mi è sembrato perfetto, è breve, è legato alla mia persona in quanto parte del mio cognome e soprattutto non è una parola che vuol dire qualcosa in altre lingue, così se lo cerchi su google non corri il rischio di comparire dopo che l’indice ha mutato le impronte digitali a furia di cliccare sulle pagine dei risultati!
La produzione ha avuto una gestazione simile a quella del primo concerto.
Ero ospite a casa di Paolo Messere e, non essendo in grado di resistere alla tentazione di imbracciare una chitarra che mi fa gli sguardi ammiccanti mentre riposa poggiata sul divano, ho iniziato a suonare il mio repertorio di canzoni new wave e post punk nel suo soggiorno. Avendo in comune con Paolo gli stessi gusti questa occasione ci ha portato ad approfondire un rapporto di amicizia e dopo aver ceduto al suonare anche i miei brani mi ha proposto di registrarli con la sua etichetta.
Paolo è il titolare della SeahorseRecordings, una etichetta di culto che ha contribuito alla diffusione di musica “non allineata con il mercato” in Italia e nel mondo. Insieme a lui abbiamo registrato, durante le vacanza di Natale del 2017, otto dei nove brani dell’album nel suo studio di Siracusa. L’ultimo l’abbiamo trovato successivamente dimenticato in una cartella del mio hard disk, a Paolo è piaciuto e lo abbiamo registrato la stessa sera a casa mia. E così è (ri)nato Lomb.
2) La timbrica scura della tua voce e l’approccio elettro-acustico, lasciano trasparire la “maturità” di Cuts e ci suggerisce che esso sia specularmente il frutto del tuo vissuto fino a questo momento. Non a caso, accanto alla tua anima punk le sonorità diventano più pacate, profonde, quasi meditative. Ci vuoi raccontare di questo tuo mutato approccio alla composizione?
Innanzitutto sono cambiato io. Suono in pubblico da quando avevo sedici anni, da allora la musica mi ha salvato e lo ha fatto da molti punti di vista: da ragazzino avevo una timidezza insormontabile, la musica era il sasso che rompeva questa barriera invisibile che mi separava dagli altri, spesso uscivo da solo portando con me la chitarra e mi sedevo da solo suonandola; grazie a questo stratagemma riuscivo a farmi notare e alla fine riuscivo a farmi anche delle amicizie.
Anche il mio lavoro ha avuto inizio grazie alla musica: ho iniziato a smanettare con i software di grafica proprio perché avevo l’esigenza di pubblicizzare i concerti, di confezionare le audiocassette dei demo-tape con cui ci proponevamo con le prime band a pubblico, giornalisti e riviste. Prima ancora usavo la mia passione per il disegno per pubblicizzare le serate “dark” insieme al mio amico Antonio Vetrano che poi era anche il cantante della mia prima band, i “GothicAngels” (un nome un programma!), quelle le facevo con penne e pennarelli e poi si passava alle fotocopie.
Il mio primo lavoro di grafica conto terzi è stata la copertina di “4” degli Uzeda, realizzata insieme ad Agostino Tilotta, nella camera a casa dei miei genitori, con un vecchio Intel 486 che con tempi biblici rispondeva alle nostre ingenue richieste. Tuttora mi mantengo grazie al lavoro di Graphic Designer che da lì in poi ho studiato e approfondito con passione.
Tuttavia, se da un lato, la musica ha aperto uno spiraglio, dall’altro, grazie ai volumi e alle chitarre distorte, la mia timidezza resisteva e manteneva lontani gli altri rappresentanti della specie umana. Era il modo per mostrarmi “alternativo” ai più, un modo per distinguermi e non confondermi con il volgo. Per fortuna, nel corso degli anni questa esigenza è sfumata in favore dell’accettazione di me stesso, delle parti di me che ho nascosto ai miei stessi occhi. Questa evoluzione ha influenzato in maniera determinante il mio approccio con la musica che, complice anche l’età che avanza, ha assunto toni più intimi e riflessivi.
Per la realizzazione di “Cuts” la mia scelta è stata quella di non fare alcuna ricerca di sorta, mi sono tenuto lontano da ogni esercizio di stile — sia tecnico che compositivo — cercando il più possibile di essere autentico e di mettere a nudo tutte le ferite (ecco perché il disco si chiama “Cuts”, ovvero “tagli”) pensando e sperando che questo potesse creare un rapporto più coinvolgente con chi si appresta all’ascolto delle tracce dell’album. La cosa che mi dà più gioia è avvertire questa consapevolezza, le note “arrivano” alle persone ed io ne ricevo un feedback immediato in termini di sensazione, una cognizione che non sente il bisogno di alcuna conferma verbale, si tratta di un sentire, un tipo di comunicazione che va oltre i nostri cinque sensi.
3) Cosa rimane in te di quegli anni ’90 catanesi e cosa rimane della Catania musicale di allora che tanto ha fatto parlare di se, sia in ambito nazionale, sia internazionale?
Le risposte a questa domanda potrebbero essere infinite, diverse per ognuno di noi che quell’epoca l’ha vissuta e ognuno di noi potrebbe risponderti diversamente a seconda del punto di vista a cui ci si vuole agganciare. Non so che senso avrebbe raccontarne la storia e, prima ancora di raccontarla, dovremmo partire con una dissertazione sul concetto stesso di Storia. Io credo che la storia in quanto racconto non sia importante se non per crogiolarsi nei ricordi e per compiacersi della propria malinconia; un modo — insomma — per fuggire dal presente. Da questo punto di vista, dal punto di vista della storia, a mio avviso non è rimasto nulla se non un racconto morto che qualche giornalista può raccontare per darsi un tono di cultura alternativa e può farlo indifferentemente dal punto di vista dei vincitori (quei nomi che poi sono emersi) o dei vinti (un centinaio di ragazzi che l’hanno vissuto e che oggi hanno progetti minori, oppure hanno posato gli strumenti per dedicarsi a delle attività socialmente più riconosciute e in linea con le pressioni sociali).
A mio avviso, per noi che abbiamo vissuto quei concerti, che abbiamo incontrato e conosciuto di persona le band che ascoltavamo, che abbiamo pranzato con i Blonde Redhead, giocato allo schiaffo del soldato con i Fugazi, passeggiato sul belvedere di Santa Caterina con i June of 44, per me che ricordo il braccio paralizzato dall’emozione al concerto di apertura dei Sonic Youth, che ho improvvisato confuso un brano inesistente in una stanza con altri 15 musicisti per gran parte sconosciuti diretti da David Grubbs, quei momenti non sono una storia scritta, sono pezzi vivi che continuano a pulsare dentro a prescindere che hai deciso di continuare a suonare o meno. Per cui, per tornare alla domanda, quello che rimane è molto ma è invisibile e non può essere raccontato, puoi coglierlo negli sguardi di qualcuno, e capisci che è stato importante dalle reazioni di alcune persone che appena sanno che sei un musicista di Catania, anche se non lo fanno espressamente, capisci che provano un misto di invidia e ammirazione e comprendi che stanno pensando “tu l’hai vissuto?”
4) Una volta “incidere il disco” aveva un significato importante per un musicista. Nell’epoca di Youtube, in cui la gente non acquista la musica ma la scarica, cosa vorresti consigliare a ci ha il desiderio di emergere in ambito musicale nella nostra terra?
Pensavo piuttosto di farla io a qualcuno questa domanda, cosa mi consigliate considerando il fatto che ho deciso di emergere? In tal senso ho più domande che risposte. Provo a non evitare la domanda cercando di dare contemporaneamente delle risposte a me stesso.
Per quanto mi riguarda un disco è comunque una tappa importante, finire un disco corrisponde a mettere un punto ad un discorso iniziato. Completare gli arrangiamenti, dare una forma definitiva ai brani è un passo fondamentale.
Una volta fatto però i punti interrogativi si moltiplicano. E adesso? Lo suonerò in giro? Come faccio a promuoverlo considerando che da dove vivo al resto dell’Italia mi separa un costoso e lungo viaggio fatto di chilometri, traghetti e pedaggi? E una volta che ho superato tutti questi ostacoli verrà qualcuno a sentire le mie note? Come faranno a sapere che ci sono? Cosa li scollerà la sera del concerto dalla loro poltrona davanti alla loro TV 46 pollici e la nuova serie di Netflix? Non credo di avere una risposta a nessuna di queste domande! Certamente io non mi aspetto la fama e la gloria, io spero che l’ufficio stampa e il booking della Seahorse siano in grado di rendermi sostenibile la promozione dell’album.
In prima persona non ho idea di quali possano essere i mezzi e le risorse necessarie da mettere in gioco per raggiungere dei risultati accettabili. Posso solamente gettare lo sguardo al di là dell’ostacolo, consapevole che le strade possono aprirsi anche quando non le vedi dal punto di vista della linea di partenza.
5) Alla luce di quanto detto, quindi, quali saranno i tuoi programmi per il tuo immediato futuro?
Il mio obiettivo è quello di riuscire a rendere la mia carriera di musicista economicamente sostenibile, concretamente questo significa che vorrei arrivare alla registrazione di un secondo e di un terzo disco con un discreto numero di concerti alle spalle e con un minimo di riconoscimento da parte del pubblico tale da potermi consentire di spostarmi con dei cachet accettabili per me e la band. Insieme a Walter Caraci, Santo Trombetta e Dario Pierini abbiamo trovato la formula per suonare dal vivo tutti i brani dell’album. Sinceramente mi piacerebbe riuscire a portare lo spettacolo a più persone possibile, magari suonando a qualche festival importante oppure come apertura al tour di qualche artista più famoso che può contribuire alla diffusione delle mie canzoni.
Il mio sogno è quello di fare un tour dei teatri. In questa fase della mia vita mi piace l’idea di suonare davanti a gente che sta seduta e che si gode la musica in un momento tutto suo, un piccolo rituale di rifugio dalla vita quotidiana fatta di continue interruzioni e notifiche sonore.
Davide Aricò